J'accuse
Non sapevo se inserire questa rubrica, ci ho pensato un po’. E anche cosa scrivervi non era così automatico. Non poteva essere una rubrica di libri francesi, le rubriche di libri le fanno i critici e poi non ho nemmeno letto tutti questi libri. Ma nemmeno di cinema o di musica, per lo stesso motivo. Anche aver visto tanti musei in Francia non è certo un motivo sufficiente per parlare di arte. Diciamo che una rubrica dedicata alla cultura, qualunque essa fosse – alta, media o bassa – non faceva per me e nemmeno uno spazio dedicato a una serie di interviste alle persone interessanti che ho incontrato, perché per quello ci vorrebbe un giornalista “vero”. Oltre al fatto che è tutto da vedere se le persone in questione siano lì ad aspettare di raccontarsi a un sedicenne appassionato di Francia.
Alla fine però ho deciso che non sarebbe stata una rubrica culturale, come quella che ci si può aspettare da chi ne sa o ha i titoli per farla, ma semplicemente una serie di appunti su quello che ho trovato, trovo e troverò interessante sulla Francia rispetto alle mie passioni.
Così, a dispetto di ogni mia previsione, parto da un film. Non sono un cinefilo però sono appassionato di storia e di Francia. Così su suggerimento di mia madre ho guardato un film in televisione, cosa che francamente non faccio mai. Il film è
“J’accuse”, diretto da Roman Polanski
Nato da padre polacco e madre russa, ma naturalizzato francese perché nato a Parigi nel 1933, ha diretto magnifici film di cui però io conosco davvero poco, se non l’inquietante Rosemary’s Baby con Mia Farrow e Frantic, un bellissimo giallo girato a Parigi che ha come protagonisti Harrison Ford ed Emanuelle Seigner.
Così, nel mio immaginario, Polanski non era certo il regista che avrei pensato per un film storico. Invece mi sbagliavo, il film è bellissimo. Il titolo originale nel nostro Paese è stato tradotto un po’ rozzamente come “L’ufficiale e la Spia”, ma comunque è una ricostruzione fedele del caso Dreyfus che divise – fra il 1894 e il 1906 – una Francia umiliata dalla sconfitta nella guerra franco-prussiana del 1870. In due parole la storia è questa: il capitano francese alsaziano di origine ebraica è condannato per tradimento e spionaggio a favore della Germania. Degradato e condannato, sulla base di prove che poi si dimostreranno false, lui in realtà è innocente. Nel 1906 verrà riabilitato e reintegrato nell’esercito su iniziativa del Parlamento, ma l’hanno dopo sarà collocato a riposo senza alcuna compensazione per l’errore giudiziario.
Spettacolare è la descrizione del rapporto che lega il Tenente Colonnello Marie-Georges Picquart – interpretato da un bravissimo Jean Dujardin – che diventato capo dei servizi segreti dell’esercito francese riesce a dimostrare fra mille difficoltà la falsità delle prove e il Capitano Alfred Dreyfus. Il film mi è piaciuto perché è sobrio senza smancerie. Perché viene fuori la Francia che piace a me. Una Francia laica, dove laico non ha nessuna accezione religiosa bensì civile. Un laicismo che è onestà intellettuale: si può essere fedeli all’Esercito fino alla morte, ma davanti a un’ingiustizia la giustizia è più importante dell’Esercito stesso e più importante di tutto quello a cui si è consacrato la propria vita. E allora si è disposti a perdere tutto, a mettersi contro tutto quello in cui si è creduto in nome del valore supremo: la Verità a sostegno della Giustizia.
Il finale poi è magistrale. Picquart e Dreyfus si incontrano. Dreyfus rivendica a Picquart, che nel frattempo è stato nominato ministro della Guerra, il grado di Tenente Colonnello che gli spetterebbe per gli anni nell’esercito, ma non ha maturato perché in prigione. Picquart gli ricorda che non è possibile, perché ci vorrebbe una legge ad hoc e lui non può fargli questa concessione. I due non erano amici e mai lo saranno. Non è l’amicizia che ha vinto, o i buoni sentimenti, o le conoscenze, o le opportunità. Ha vinto l’unica cosa che dovrebbe vincere sempre: la Verità. Dopo quell’incontro, i due si salutano con rispetto e non si rivedranno mai più.
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